sabato 20 marzo 2010

Fine mese

Era stata la solita giornata del cazzo, epilogo di una settimana del cazzo, a sua volta epilogo di un mese dello stesso tipo. Tra vagabondaggio, curricula e uffici postali, con il freddo umido che entrava nelle ossa, questo periodo della mia vita non aveva ancora acquisito un po’ di sapore. Aveva lasciato, per ora, soltanto un senso di insipido, annacquato, dai leggeri sentori di acre. Ero sazio di cibo pessimo, mandato giù stoicamente con grande sforzo, ma che prima o poi bisognava vomitare o cagare. Mi erano rimaste in mente solo carte, carte, carte, dall’odore freddo e amaro, mi sembrava di essermi fatto spazio fra di esse per tutto il mese, nient’altro. E per cosa? Per niente. Già sapevo che il seminare carte dappertutto, per tutto questo tempo, tra gente che ti diceva nulla, che sapeva di nulla, sarebbe servito a raccogliere il nulla. Tuttavia continuavo a perseverare, non so perché, forse per veder eretta la mia piccola torre di speranze, messe lì come pezzi di costruzioni per
bambini, guardarla e riguardarla, pur avendo la certezza, seppur nascosta e inutilmente repressa, che sarebbe crollata al primo soffio emanato dalla realtà. Ed essa non ti soffia soltanto addosso, ti sputa in faccia, continuamente, e la saliva, anche se provi a lavarla col sapone della speranza e della tenacia, lascia comunque impregnata sulla pelle la sua puzza. Mentre tornavo a casa stanco, schiaffeggiato, incazzato e totalmente privo di idee e fiducia nella società, stava già per imbrunire. Nonostante la sera porti calore e strafottenza, quella che stava per cominciare sarebbe stata, con ogni probabilità, come il resto della giornata, come il resto della settimana e come il resto del mese, una serata del cazzo.
Ma il mese era stato dedicato ad un proposito, ad una promessa: cercare di procurarmi un lavoro o un guadagno onestamente. In fondo era soprattutto per far contenta mia madre, che voleva che io facessi finalmente qualcosa, o almeno mi impegnassi a questo scopo tutti i giorni, come fanno tutti i bravi ragazzi che non trovano lavoro. Pian piano, però, a furia di essere rimproverato e consigliato da lei e dai Soloni di turno, essa diventò una specie di regolamento di conti con me stesso, una sfida per dimostrare, sempre a me stesso (non mi fregava niente degli altri, a parte mia madre), che anch’io ero capace di alzarmi presto e darmi subito da fare. Magari sarei riuscito a fissare un appuntamento di lavoro, propormi come operaio, impiegato, qualunque cosa. Sì, una parola. Fin’ora, come in passato, era stato impossibile. D’altronde cosa puoi aspettarti da una città come Napoli, in un paese come l’Italia, nelle grinfie di un sovrano quasi assoluto come il Grande Nanetto? Altre volte riuscivo a tirare parzialmente avanti spacciando qualche droga leggera, un po' di cannabis coltivata da un mio amico o roba sintetica preparata da noi stessi. Oppure rubavamo qualche superalcolico al supermercato e lo rivendevamo a prezzi più ragionevoli. Ma quel mese avevo deciso di impegnarmi a cercare solo lavori onesti e puliti. Per tutto il periodo avevo infatti fatto il giro delle agenzie interinali, inviato decine e decine di curricula, fatto qualche misero colloquio ipocrita e scoraggiante, cercato informazioni a destra e a sinistra, insomma ero andato a sbattere dappertutto. Ruba più vita il cercare lavoro che lavorare, ti infiacchisce di più. Mi sembrava persino di non avere avuto neanche il tempo di dedicarmi a me stesso, che so, leggere un libro, suonare il piano, riflettere, fare l’amore, uscire a bere qualcosa, tagliarmi le unghie dei piedi, grattarmi la schiena, schiacciarmi qualche brufolo, masturbarmi, scorreggiare… Nemmeno il tempo di sognare. Non mi sentivo quasi più un essere umano. Ed ora s’avvicinava l’ennesima e uguale sera, seguita da una notte uguale a tutte le altre (è sempre così quando non sogni), a coronare un mese fatto di niente.
Decisi, tuttavia, di fare un ultimo tentativo: quella sera sarei andato al bar di Gianni a domandargli se aveva bisogno di un aiutante. Magari mi avrebbe tenuto lì anche il sabato e la domenica successivi, quando c’era più gente. Feci una doccia rigenerante, mi cambiai e uscii. Faceva sempre freddo, l’aria era umida e ferma, il cielo senza stelle, coperte probabilmente da un velo di foschia, e ogni tanto s'alzava un soffio di vento gelido. Per strada c’era il deserto. Tipica sera di un inutile gennaio, con un inutile clima. Entrai. L’ambiente appariva squallido ma abbastanza accogliente, un vero e proprio rifugio. Due disperati, ormai rassegnati, seduti ai videopoker, un ubriacone, puzzolente dalla testa ai piedi, con la testa china sul bancone e, poco più in là, Cicerone, un matto, appoggiato all’uscio. Gianni guardava un telefilm poliziesco (l’ennesimo che ci proponevano). Mi sedetti, ordinai una birra e una seconda me l’offrì lui.
Chiacchierammo del più e del meno, poi: “Gianni,” dissi, “senti una cosa: per caso in questi giorni, non so, magari già da stasera, e poi anche sabato e domenica, hai bisogno di un aiutante?”
“Eh…” rispose, “vedi, in questi giorni penso proprio di no, sai com’è, stasera già so che non viene nessuno, e ogni week-end c'è poca gente, giusto qualche ragazzo di queste parti per un caffè a tarda serata. Poi mo è un periodo un po’ morto, a gennaio stanno quasi sempre chiusi in casa.”
“Ah, capisco… Ma anche solo per lavare il locale, roba da niente, mi paghi quanto vuoi tu.”
“Eh, lo so, ho capito, ma sai, poi ti darei una miseria… Qua è una palla, Daniele, già lo sai. Poi si mette anche la crisi… Non c’è quasi nessuno, non si ingrana, mi dispiace… Poi, più in là, se ho bisogno, senz’altro ti faccio sapere, non ti preoccupare.”
“Va be’, grazie comunque. Allora ci vediamo, ciao.”
“Ciao ciao, buona serata.”
Appena fuori, fui colpito da un’improvvisa folata di vento malsano. Una lattina di birra vuota, vuota come quel periodo della mia vita, venne spinta dal vento fino al bordo del marciapiede, ed io ero spinto, senza avere una meta, verso gli stessi inutili luoghi. Un gatto attraversò la strada, in cerca di cibo.
Non ero riuscito a offrirmi un lavoro onesto, niente da fare. Adesso mi aspettava un week-end per rilassarmi, per staccare da tutto, e poi un altro mese con un enorme punto interrogativo: che fare? Non ero sicuro che avrei continuato a cercare lavoro, ero troppo sfiduciato e amareggiato, ma forse non avrei nemmeno fatto il nullafacente, troppi sensi di colpa. Allora non mi restava che concentrarmi sul week-end, almeno mi sarei dedicato a me stesso.
Girovagai in cerca di niente, solo di un fluire di strade e cose. Avevo bisogno di scaricarmi, di muovermi, di scuotere la mente, di farmi venire in mente qualcosa. Ma c’erano scarse e incerte possibilità: potevo tentare alla trattoria di Gino, ma lì c’erano solo sfruttatori con cui tra l’altro ero in cattivi rapporti, oppure andare dal mio amico Giulio che quella notte si sarebbe recato a Poggioreale col “tre ruote” a mettere la bancarella al “mercato delle pulci”. Avrei portato qualcosa anch’io, tipo vecchi LP, maglie, posacenere, ma già sapevo che l’attività gli andava piuttosto male e che, perciò, quasi sicuramente non mi avrebbe portato con sé. Cosa fare? Boh. Ad un certo punto vidi da lontano, verso la fine della strada, Armando, appoggiato al muro in atteggiamento vagamente circospetto: sentivo il diavoletto che mi punzecchiava e mi tentava, voleva che andassi anch’io, ma “No! Assolutamente no!” fu la risposta del suo celeste rivale. E aveva ragione. Dovevo resistere. Che diamine, cedere proprio a fine mese? No. Solo attività oneste… Ma che cazzo fare?
Camminai, camminai e camminai, respiravo l’aria fredda, umida, ostile, ma in quel momento mi serviva, mi rafforzava, il patire il freddo mi distoglieva dal pensare. Camminai piuttosto a lungo. Giunsi in un quartiere residenziale elegante, patria dei ricconi della città, dei tipi glamour e raffinati, dei cosiddetti “chiattilli”. Futili e vuoti, tranquillamente ottusi ma presuntuosi, figli di ladri e ladri provetti, spesso razzisti e cattivi nei pensieri e nelle intenzioni. Osservavo le case, le ville e villette, i palazzi un po’ antichi ma ben tenuti, i giardini pieni di fiori, curatissimi, pacifici. Le persiane quasi tutte chiuse, le luci accese e i pochi lampadari che si riuscivano a intravedere e che fanno immaginare dialoghi e cene in famiglia. “Che cavolo!” pensavo, “Abitassi io qui, avessi io i soldi che hanno loro, sarebbero finiti i miei problemi, avrei tutto il tempo per dedicarmi alle cose belle, rilassarmi e meditare tranquillamente. Invece la maggior parte di questi qui non sanno godersi la vita, tutti intenti a preoccuparsi del capello, delle ultime mode, delle macchine grandi, delle marche, del linguaggio in voga… Ah, che coglioni!”. Mentre fantasticavo con la mente, una jeep dai lineamenti mostruosi uscì velocemente da un cortile. Era uno di quei coglioni a guidarla, e non aveva affatto guardato chi avrebbe potuto transitare. Mi sfiorò la coscia destra, ci mancava poco che mi ammazzasse. “Oh!” gli gridai, arrabbiatissimo, “Strunzo, ma che cazzo faje1?!!” Lui mi guardò con quella sua faccia di culo stupita e subito si precipitò fuori dal veicolo, preoccupato di un’eventuale ammaccatura al paraurti del carro armato procurata dalla mia gamba: “Mannaggia la miseria!” esclamò con voce da gay, “La macchina, la macchina! Ma guarda dove cammini! Che fai, dormi?!” Era tutto lampadato e fonato, indossava un gilè verde pistacchio su una camicia bianca, cintura con la scritta Dolce & Gabbana in bella mostra, quasi fosse un marchio a fuoco che si usa per il bestiame, pantaloni nero lucido strettissimi alle caviglie e mocassini scamosciati marroni con fibbia dorata, da frocio (con tutto il rispetto per gli omosessuali). Come cazzo era brutto! Lo lasciai blaterare e lamentarsi per un paio di minuti, anche perché rimasi per un po’ ad osservarlo con stupore, come si osserva un animale esotico, poi gli dissi: “Ma che cazzo vuoi, coglione, vuoi avere anche ragione?! Tu devi guardare quando esci da un cancello, a momenti mi ammazzavi!! Ma vaffanculo!”
“Ma stai zitto, per piacere, tu dormivi, ma a chi pensavi, eh?!”
“A quella troia di tua madre, pensavo!”
“Non ti permettere, stronzo, e dammi i tuoi dati, che qui c’è un graffio, me l’hai fatto con la borchia dei tuoi jeans!”
“Io non ti do un cazzo, ho ragione io, e ringrazia che non ci sono testimoni, altrimenti ti denuncerei. E poi quale graffio? È insignificante, guarda!”
“Madonna, ma proprio stasera mi doveva capitare questo perdente, ma perché non ve ne tornate nella spazzatura da dove siete venuti?”
Non ci vidi più. Questo figlio di papà vestito e pettinato da Big Jim versione gigolò si permetteva di darmi torto dopo avermi quasi buttato sotto e di offendere me e tutte le persone che non appartengono alla sua razza di merda! “Ciaff!” Gli stampai uno schiaffone sulla guancia destra tanto da fargli venire quasi il torcicollo. Lui rimase per un po’ inebetito, e allora gliene sferrai un altro tra l’occhio destro e il naso. Gridò in modo comico e ridicolo, poi cercò di reagire con schiaffi mollati dall’alto. Mi colpì in testa una volta, poi glieli parai e gli diedi un calcio nell’addome. Si piegò in due e quindi gli sferrai un montante in pieno viso. Cadde sanguinante, probabilmente dal naso. Era stordito e cercava di arrestare l’emorragia con la mano. Io stavo già per andarmene quando, con la coda dell’occhio, intravidi il suo portafogli penzolante dalla tasca posteriore destra degli strettissimi pantaloni. Sembrava chiamarmi e tentarmi con quel suo oscillare dalla tasca. “Lo faccio o non lo faccio?” pensai. “Ma sì.” Mi avvicinai velocemente, con passo felpato, gli diedi un calcio alla schiena, spingendolo in avanti, e contemporaneamente gli sfilai il portafogli, senza che se ne accorgesse. Sparii in una folta siepe e da lì attraversai velocemente la strada. Mi inabissai nei vicoli e salii sul primo pullman che trovai. Dentro c’erano quattro o cinque passeggeri, solitari, tranquilli. Pian piano, ma con disinvoltura, sbirciai nel portafogli: cazzo! 200 euro! Niente male. Si tratta bene il marchesino!” Alla prima fermata scesi e poi proseguii a piedi fino al bar di Gianni.
Nel bar c’erano più o meno le stesse persone di qualche ora prima: i disperati erano sempre ai videopoker e l’ubriacone beveva seduto sullo stesso sgabello, mancava solo Cicerone, forse era andato a rompere un po’ i coglioni anche bar di Franco. Presi un Jack Daniel’s e offrii da bere a tutti, che improvvisamente alzarono la testa in segno di ringraziamento, mostrando un’espressione ilare fino a quel momento mai notata in loro.
Mi appoggiai all’uscio, rilassato. Gustavo il whiskey lentamente. In cielo si era diradato lo strato di foschia e nuvole. Brillavano le stelle.

Daniele Picardi

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