martedì 19 giugno 2007

Corri uomo corri

Continuando la saga delle fughe clamorose scrivo questo spaccato di vita.

Di fronte allo specchio c'ero io, ormai pronto annodavo la cravatta con fare lento quasi a volere prolungare quell'istante all'infinito sperando che non venisse mai il momento.
Mi alzai in piedi, le scarpe lucide rispecchiavano una situazione irreale, non volevo non potevo, non avrei dovuto.
Diedi un ultimo sguardo alla cravatta, un simbolismo assurdo mi veniva in mente guardandola, il boia che sale e annoda il cappio sopra il suo cappuccio nero, continua quasi per inerzia, come avrei fatto?
Ero purtroppo pronto, uscì dalla mia stanza, una porta a vetri bianca mi separava ormai dal mio inesorabile destino, il ricordo profumava ancora della pittura bianca che io e papà abbiamo dato quindici anni fa allo stipite, odora ancora di lui, ormai é tutto quello che mi rimane di lui intendo.
La casa é in fermento, flussi di persone mi passano accanto, passo lento in un monto in bianco e nero a rallentatore, vedo il tempo scorrere inesorabile, mi sveglio ormai che sono dinnanzi alla porta d'ingresso mia madre mi porge la mano, scendo.
Il viaggio in macchina é ormai un rituale penso penso, il mondo mi passa accanto fuori dal finestrino inesorabile, lui non si accorge di me.
La chiesa é bianca, il sole di maggio la fa risplendere, mi ricorda il mare, la spiaggia il sole; le scale sono piccole e strette , le salgo producendo uno scricchiolio simpatico, mi ricordo da piccolo il tip tap improvvisato ballato con le scarpe classiche nuove, scimmiottato con tacchi nuovi di bambino, che non avevano mai calpestato terra fino a quel momento.
La chiesa é gremita, le panche adorne di fiori passo toccando ogni singolo mazzolino con la mano quasi come a schiacciare le mani di invisibili compagni lungo il miglio verde.
Ritorno in bianco e nero la gente mi saluta mi fa gli auguri, qualcuno mi appunta un fiore bianco al petto, un fiore freschissimo, ancora la rugiada del mattino imperla i pistilli; salgo un piccolo scalino, sono giunto.
Il velluto rosso mi accarezza stringo le mani le intreccio le annodo guardo indietro attorno e poi di nuovo indietro.
Tutti intorno si siedono, mia alzo, un abbraccio di luce mi assale , ricordo le partite di pallone fare il portiere con il sole in faccia dava la stessa sensazione che provo ora.
Le parole iniziarono a scorrere lente, il caldo di maggio si insinuava nella cattedrale, fuori il deserto, una piazza riarsa dal sole e dalla calura.
Mi voltai di lato, di fianco alla colonna di fresco marmo vedevo un uomo, i calzoni di tela grossa, grigio chiaro, scarponcini da lavoro una canottiera logora e tutto sporco di pittura bianca; si era tolto il cappello di carta e lo eneva in mano in segno di rispetto.
Indugiai sulla figura, aveva i baffi grigi cosparsi e induriti dalla pittura, il viso di polvere biancastra, solo una lacrima segnava il suo solco facendosi spazio tra la polvere; "vuoi tu prendere..." mi risvegliai, le parole non riuscivano ad uscire, mi guardavo in torno tutti aspettavano che proferissi cio che volevano, loro.
La figura non era più accanto alla colonna , vedevo la sua sagoma, disegnata dalla luce, sul portale, infiniti raggi partivano da quel punto e si stagliavano sull'altare.
Uscirono le agognate parole, io però non le sentii due passi ed ero fuori, il sole era meno caldo la frescura del mare ormai mi copriva, non avevo più paura.



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